Il neurochirurgo Massimo Gandolfini chiarisce alcuni aspetti dell’ormai nota questione gender
dall’intervista di Anna Pelleri
Il gender, termine ormai noto ai più, è
al centro di grandi dibattiti sia scientifici che culturali. Abbiamo
chiesto al prof. Massimo Gandolfini, neurochirurgo, Direttore del
Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione Poliambulanza di Brescia e
vicepresidente nazionale dell’Associazione Scienza&Vita, di
chiarire il significato e l’origine di questa ideologia e il ruolo del
cervello nella definizione del genere.
Prof. Gandolfini, potrebbe ricordarci l’origine della teoria del gender?
Dal punto di vista strettamente storico,
il termine “gender” trova la sua genesi più remota nel lavoro di
Sigmund Freud, apparso nel 1920, con il titolo “Psicogenesi di un caso
di omosessualità nella donna”, in cui – per la prima volta – si pone il
tema della differenza fra “gender role” e “gender identity”. Sul piano
dell’elaborazione culturale, l’ideologia del gender si propone a partire
dagli anni ’50/’60 ed è caratterizzata da tre “ondate”, che si
susseguono e si integrano fra loro.
La “nurture theory”, o teoria della
prevalenza della cultura sulla natura, fu propugnata da John Money,
direttore del dipartimento di sessuologia del John Hopkins Insitute di
Baltimora. Negli anni ’60 cominciò ad imporsi il “dogma” che si diventa
uomo o donna non per determinazione biologica sessuale, ma per
imposizione di “stereotipi” di genere. Detto in altre parole, un maschio
diventa uomo perchè condizionato da categorie pedagogiche e culturali
che gli impongono di rivestire il ruolo sociale proprio dell’uomo
(giocare a pallone, giocare con armi, fare a botte con i compagni,
ecc..).
Altrettanto vale per la femmina che
viene condizionata per diventare donna. Ne consegue che modificando gli
stereotipi di genere, si può modificare l’evoluzione culturale sia del
maschio che della femmina, completando il lavoro attraverso tecniche
medico-chirurgiche di “riassegnazione del sesso”. In questo contesto si
inserisce la tragica “sperimentazione” condotta dal dottor Money sul
piccolo Bruce, trasformato in Brenda, che si conclude con il suo
suicidio, dopo una vita di disagio e travaglio indicibili.
La seconda ondata: il movimento femminista
La seconda “ondata” è legata alla storia
del movimento femminista per l’emancipazione e l’uguaglianza della
donna, soprattutto a partire dagli anni ’70. Possiamo citare un nome per
tutti: Simone de Beauvoir, con la sua lotta per il diritto al divorzio,
la libertà sessuale realizzata attraverso la contraccezione e il
diritto all’aborto, al fine di liberare la donna dal condizionamento
della maternità. Nel 1980, Adrienne Rich produce un testo considerato il
manifesto del lesbismo, proposto come lo strumento vincente per la
lotta di liberazione dal maschio, e conia la “famosa” sigla LGBT,
proponendo quattro generi di identità e correlato orientamento sessuale.
La terza ondata: la “non identità”
Possiamo localizzare la “terza ondata”
agli inizi degli anni ’90, con Judith Butler, femminista lesbica e
autrice di “Gender Trouble”, atto fondativo del femminismo radicale, nel
quale si propone l’ideologia della “non identità” all’interno di una
società globale fluida e liquida, senza nessun punto fisso di
riferimento, che apre la strada al “nomadismo” di Anne Sterling (1993).
In questo contesto, nasce il genere “queer” – strano, variabile,
modificabile – che va ad integrare il già citato acronimo LGBTQ.
C’è differenza tra identità sessuale e genere?
Vorrei precisare che è più corretto
parlare di identità “sessuata”, piuttosto che “sessuale”. Con la prima
denominazione, infatti, si sottolinea che l’appartenenza di sesso –
maschio o femmina – non è un nostra scelta, bensì una realtà biologica
che ci troviamo compiuta dalla nascita: ce la siamo trovata iscritta
nella totalità del nostro corpo, cellule, tessuti, organi ed apparati.
Questa è la differenza fondamentale tra identità sessuata e ideologia di
gender: la prima è biologicamente determinata, la seconda è una
scelta autonoma e individuale che prescinde totalmente dal dato di
realtà rappresentato dall’appartenenza sessuata.
Lei è un neurochirurgo, il
cervello è maschio o femmina? Rimane tale al di là di interventi
chirurgici, ormonali e psicologici atti a modificare il “genere” di una
persona?
Negli ultimi vent’anni abbiamo acquisito
il principio che la sessuazione dimorfica (maschio/femmina) riguarda il
nostro organismo nella sua totalità, cervello compreso. Oggi parliamo
di “cervello sessuato” volendo intendere che maschio e femmina sono
differenziati anche dalla struttura anatomica e dal funzionamento del
proprio cervello. Fin dai tempi di Vesalio e di Leonardo da Vinci
sapevamo che volumetricamente il cervello maschile è più grande di
quello femminile (perdonate la precisazione necessaria per evitare
“battute scontate”: la funzione non è proporzionale alla massa!), ma
solo negli ultimi vent’anni abbiamo compreso che la differenza è anche
di ordine anatomico e funzionale.
In estrema sintesi, il cervello maschile
è caratterizzato da una rigida “lateralizzazione” – le aree del
linguaggio sono, ad esempio, rigidamente localizzate nell’emisfero
sinistro; al contrario, nella femmina vi sono rappresentazioni anche
nell’emisfero destro – e le connessioni interemisferiche – cioè i
collegamenti fra i due emisferi – sono più sviluppate e numerose nel
cervello femminile. Grazie a complesse indagini che studiano il
funzionamento del cervello (soprattutto le tecniche del neuroimaging,
quale la risonanza magnetica funzionale e la PET), abbiamo compreso
quali sono le basi anatomofunzionali per spiegare il dato che la
psicologia comportamentista fin dagli anni ’50 ci proponeva, e cioè che
l’elaborazione del “pensiero” maschile (detto “pensiero lineare”) ha
caratteristiche diverse rispetto al pensiero femminile (“pensiero
circolare”).
E’ proprio la maggiore ricchezza di
connessioni fra i due emisferi che rende il pensiero femminile
“multitasking” (capace, cioè, di aprire e gestire contemporaneamente più
file), rispetto al maschile, in grado – invece – di gestire un solo file
alla volta. La sessuazione cerebrale è iscritta tanto profondamente nel
nostro corpo che non è modificabile con la terapia ormonale che viene
utilizzata in ambito di terapia per riassegnazione sessuale (ad esempio,
nei casi di “disforia di genere”): tutto il corpo è rimodellabile, ma
non il cervello.