Rome Life Forum
Angelicum – 18 maggio 2018
Parlare di resistenza nella storia e nella dottrina cattolica non significa in alcun modo fare l’apologia della disobbedienza e della ribellione. Al contrario io farò l’apologia dell’obbedienza. Ѐ dalla virtù dell’obbedienza, non dalla disobbedienza, che discende la liceità della resistenza cattolica alle autorità familiari, politiche e religiose, quando esse violano la legge divina e naturale.
Questa premessa è necessaria, perché dobbiamo evitare il pericolo di assumere un atteggiamento psicologico di contestazione verso l’autorità, che non ha nulla a che fare con la fede e con la morale cattolica.
La virtù morale dell’obbedienza
Quando si parla di obbedienza si pensa generalmente al voto che fanno i religiosi, il voto più difficile da mantenere e quindi il più perfetto dei tre, perché sacrifica quello che è più importante, la propria volontà. Ma l’obbedienza, prima di essere un voto, è una virtù morale. San Tommaso definisce l’obbedienza come la virtù morale che rende la volontà pronta ad eseguire i precetti dei superiori. Ubbidendo ai legittimi superiori, noi ubbidiamo a Dio, perché ogni potestà viene da lui (Rom. 13, 1). L’obbedienza, dunque, come tutte le virtù, ha un fondamento divino e non umano.
La virtù morale dell’obbedienza discende dal Decalogo. Il quarto comandamento ci dice: onora il padre e la madre. La famiglia è il primo luogo in cui l’essere umano impara il valore dell’obbedienza. Il quarto comandamento contiene il dovere di ubbidire non solo ai propri genitori, ma ad ogni autorità, in quanto espressione della Volontà di Dio che, come spiega san Tommaso, è la prima regola dell’ordine per tutte le volontà create.
Questo comandamento, che impone di prestare obbedienza alle legittima autorità e alle legittime leggi, in quanto espressione della legge naturale, è universale e assoluto, come il quinto comandamento che dice non uccidere o il sesto che dice non commettere atti impuri.
Ma l’obbedienza ha anche un fondamento soprannaturale ed è la regola della vita spirituale di ogni cristiano.
San Paolo dice che Gesù Cristo fu “obbediente fino alla morte, alla morte di Croce! (Fil. 2, 8)”. I santi, seguendo l’esempio del Divino Maestro, nel rispetto della legge divina, non si sono limitati a obbedire alle autorità: hanno cercato di obbedire alla volontà degli altri, rinunciando alla propria. Beato colui che non fa mai la propria volontà, ma sempre e solo quella degli altri, che essi siano i propri genitori, i propri superiori, il proprio marito e la propria moglie, e persino il prossimo che incontriamo e che dobbiamo amare come noi stessi, secondo un ordine della carità che lo stesso san Tommaso definisce nella Summa.
Il contrario dell’obbedienza è l’affermazione disordinata del proprio io, l’egoismo, la ricerca di sé stessi e della propria volontà, che ci conduce al peccato. Il peccato è sempre innanzitutto una disobbedienza. Perciò san Paolo dice che “per la disobbedienza di uno solo, l’intero genere umano divenne peccatore” (Rom, 5, 19). La società cristiana è una società regolata dall’obbedienza e vivificata dall’amore di Dio e del prossimo.
La società diabolica è la società del disordine e della disobbedienza. Osserva Juan Donoso Cortés: “Se il peccato altro non è che la disobbedienza e la ribellione, e se la disobbedienza e la ribellione non sono che il disordine, e il disordine è il male, ne consegue che il male, il disordine, la ribellione, la disobbedienza e il peccato sono cose nelle quali la ragione riscontra una identità assoluta, allo stesso modo per cui il bene, l’ordine, la sottomissione e l’obbedienza sono cose nelle quali la ragione riscontra una completa somiglianza. Scaturisce da ciò la conclusione che la subordinazione alla volontà divina costituisce il sommo bene, mentre il peccato è il male per eccellenza”.
I sudditi sono tenuti a ubbidire in tutto ai loro superiori?
Il principio secondo cui l’obbedienza è dovuta ai superiori perché rappresentano l’autorità stessa di Dio ha importanti conseguenze. I nostri superiori, nell’ordine familiare, politico ed ecclesiastico, rappresentano l’autorità in quanto rispettano e fanno rispettare la legge divina. Questa legge divina non è tale perché il superiore ce la impone, ma perché ha in sé stessa, ovvero in Dio che ne è l’autore, il suo fondamento. Chi ha l’autorità, dice san Paolo, è “ministro di Dio per fare il bene (Rm, 13, 4)”. Però l’amore alla volontà di Dio ci può spingere a rifiutare quelle autorità e quelle leggi che rifiutano Dio e che, rifiutandolo, pregiudicano la sua gloria e mettono in pericolo le anime.
Perciò, quando san Tommaso pone la questione “se i sudditi sono tenuti a ubbidire in tutto ai loro superiori”, la sua risposta è negativa.
I motivi per cui un suddito può non essere tenuto a ubbidire in tutto al proprio superiore, spiega il Dottore Angelico, sono due.
Primo. Per il comando di un’autorità più grande, perché bisogna rispettare la scala gerarchica delle autorità.
Secondo. Se il superiore comanda al suddito delle cose illecite. L’esempio è quello dei figli che non sono tenuti a ubbidire ai genitori quando si tratta di contrarre il matrimonio, o di custodire la verginità o altre cose del genere.
San Tommaso conclude: “A Dio l’uomo è soggetto in modo assoluto, e in tutte le cose, sia interne che esterne: per cui è tenuto a ubbidirgli in tutto. I sudditi invece non sono soggetti ai loro superiori in tutto, ma soltanto in alcune cose determinate. (…) Così dunque si possono distinguere tre tipi di obbedienza: la prima, sufficiente per salvarsi, si ferma ad ubbidire nelle cose d’obbligo; la seconda, perfetta, ubbidisce in tutte le cose lecite; la terza, disordinata, ubbidisce anche nelle cose illecite”.
Ciò significa che l’obbedienza non è cieca e incondizionata, ma ha dei limiti. In caso di peccato, non solo mortale, ma anche leggero, avremmo non il diritto, ma il dovere di disubbidire. Ciò vale anche nel caso in cui ci fosse comandato qualche cosa di nocivo alla vita spirituale.
Ma chi ci dice che il precetto dei nostri superiori è illecito? Ce lo dice la nostra coscienza, che non è un vago sentimento dello spirito, ma il retto giudizio della ragione sulle nostre azioni; il giudizio ultimo su ciò che si deve fare o non fare. La coscienza non ha in sé stessa la propria norma, ma deve sottomettersi alla legge morale, fondata su quella divina. Il massimo atto di obbedienza che possiamo compiere è quello della nostra coscienza alla legge morale.
Per amore di Dio dobbiamo essere pronti a quegli atti di suprema obbedienza alla sua legge e alla sua volontà che ci sciolgono dai legami di una falsa obbedienza umana. Dio ci obbliga solo per santificarci e quando la legge mette a repentaglio la nostra santificazione noi abbiamo il diritto di opporci ad essa.
I martiri non obbedivano alle autorità dello Stato che imponevano loro di incensare gli idoli. E neppure ai genitori, ai figli, ai mariti e alle mogli, che chiedevano loro di fuggire il martirio in nome del bene familiare.
San Tommaso Moro era un leale servitore di Enrico VIII, ma non fece la sua volontà e non fece neppure la volontà della moglie Alice che negli ultimi colloqui lo supplicava: “Vuoi abbandonarci, me e la mia infelice famiglia? Vuoi rinunciare a quella vita nel nido domestico, che, ancora poco fa, ti piaceva tanto?”. Ma Tommaso risponde: “Per quanti anni, mia cara Alice, credi che possa ancora godere quaggiù di quei piaceri terreni che mi dipingi con un’eloquenza tanto persuasiva? – Vent’anni, almeno, se Dio vuole. – Ma, carissima moglie, non sei una buona negoziante: che è mai una ventina d’anni a confronto di un’eternità beata?”
Legge giusta e ingiusta
La legge naturale, a cui la nostra coscienza deve sottomettersi, è un ordine oggettivo e immutabile di verità e valori morali. La ragione scopre quest’ordine innanzitutto nel proprio cuore, perché quest’ordine è una legge incisa “sulle tavole del cuore umano col dito stesso del Creatore” (Rm. 2, 14-15). La legge morale è valida per ogni uomo proprio perché ogni uomo la porta impressa nella propria coscienza: non potrebbe averla impressa nella coscienza, se questa legge non fosse radicata nella natura umana.
Ogni legge positiva in contrasto con la legge naturale e divina è ingiusta e la autorità che pretende imporla abusa del suo potere.
Il concetto di legge giusta e ingiusta non ci viene dalla filosofia giusnaturalista moderna, ma dalla teologia e dal diritto medioevale, che eredita questi concetti dalla filosofia greca e romana e li sviluppa con maggior profondità e precisione.
Il prof. Wolfgang Waldstein è autore di un bello studio dal titolo Scritto nel cuore. Il diritto naturale come fondamento di una società umana in cui mostra come il diritto naturale è stato conosciuto e applicato praticamente dagli uomini fin dai tempi più antichi. Waldstein ricorda il famoso testo di Sofocle (496-404 a. C.), nella tragedia Antigone, ripetutamente citato da Aristotele: “Non potevo per l’arroganza di un uomo attirarmi il castigo degli dei”. I giuristi romani, ma soprattutto Cicerone, nei suoi scritti sulla res publica (De republica), sulle leggi (De legibus) e sui doveri (De officiis), svilupparono le nozioni della filosofia greca. Il diritto romano fu raccolto nell’opera nota come Digesta, pubblicata dall’Imperatore d’Oriente Giustiniano nel 533 d.C. La riscoperta e lo studio di quest’opera nel Medioevo, portò alla nascita della prima Università di Europa, quella di Bologna, che esercitò un’influenza decisiva sul pensiero medioevale.
A Bologna insegnò Graziano (1075/80-1145/1157), il grande codificatore del diritto canonico della Chiesa: un diritto in cui alla autorità della legge naturale si aggiunge quella della Sacra Scrittura, dei decreti promulgati da Papi e da Concili e della consuetudine della Chiesa.
I fratelli Carlyle, autori di una celebre storia delle dottrine politiche, ricordano come i giuristi medioevali distinguevano accuratamente tra la legge naturale o divina e quella positiva elaborata dagli uomini. Henri de Bracton (c. 1216-1268), nel suo De legibus et consuetudinibus Angliae, afferma che non c’è re dove la volontà si sostituisce alla legge: “Non est enim rex, ubi dominatur voluntas et non lex”. Non si tratta di una frase isolata – sottolineano i Carlyle – ma dell’enunciazione sintetica di un principio che impregna l’intera struttura costituzionale della società medioevale.
Il più importante concetto politico medioevale, concludono i fratelli Carlyle, è quello della supremazia della legge, non tanto come espressione della volontà del governante, quanto nel suo duplice aspetto di legge naturale e di legge consuetudinaria, nata dalle usanze di una comunità composta dal re, dai nobili e dal popolo.
Il principio del “sovrano de legibus solutus risale ai legisti di Filippo il Bello, e poi, nel XIV secolo, a Marsilio da Padova e a Guglielmo da Ockham. Da questo principio deriva la concezione moderna, secondo cui la sovranità del titolare della legge non è limitata da nessuna autorità superiore. Nella concezione medioevale, al contrario, il sovrano, fonte della legge civile, è sottomesso a quella legge naturale e divina, a cui ogni legge umana deve uniformarsi. E, in caso di conflitto tra la legge umana e quella divina, “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti,5 29)”.
Questa concezione della legge appartiene al Magistero della Chiesa.
Pio IX nella enciclica Quod numquam del 15 febbraio 1875 all’episcopato prussiano afferma: “È doveroso ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini” (Ap 2,3). E sappiano anche che ognuno di Voi è pronto a dare a Cesare il tributo e l’ossequio che sono dovuti al potere e all’autorità civile (non in seguito a minacce, ma per legge di coscienza.”
Leone XIII lo ricorda nella enciclica Libertas: nei “governi tirannici”, “dove (…) il comando si opponga alla ragione, all’eterna legge del divino impero, allora il disobbedire agli uomini per obbedire a Dio diviene un dovere”.
E se nell’enciclica Diuturnum Leone XIII sottolinea il carattere sacro dell’autorità e dei doveri di obbedienza, nella Sapientiae Christianae sui doveri dei cittadini cristiani, spiega che quando leggi dello Stato siano in contrasto con la legge divina e l’autorità si mette al servizio dell’ingiustizia, “resistere officium est, parere scelus”, allora “è doveroso resistere ed è colpevole ubbidire”. Gli stessi concetti ribadisce nella Lettera Officio sanctissimo agli arcivescovi e vescovi della Baviera, del 22 dicembre 1887, dove afferma che “se si ponesse l’inevitabile alternativa, o di disobbedire ai comandi di Dio o di compiacere agli uomini, egli faccia propria con franchezza quella memorabile e degnissima risposta degli apostoli: “occorre obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5, 29)”.
Giovanni Paolo II lo ribadisce nell’Evangelium Vitae: “Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di alle autorità legittimamente costituite (Rom. 13, 1-7; 1 Pt. 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5, 29).”.
Il potere è legittimamente esercitato quando rispetta la vita, la libertà di educazione, la famiglia, il matrimonio naturale, la proprietà privata, i princìpi religiosi e morali. Ma quando uno Stato legifera contro i diritti di Dio e della Chiesa, quando viola la morale e la legge naturale, quando perseguita e discrimina i buoni, è uno Stato iniquo che deve essere combattuto e condannato. Si può dunque disobbedire per obbedienza, in modo tale che l’apparente disobbedienza è in realtà una forma più perfetta di obbedienza.
Il diritto di resistenza
Di fronte ad una legge o a un governo ingiusto i cattolici hanno il diritto a porsi anche al di fuori della legalità. Le insorgenze della Vandea e della Santa Fede napoletana, come la Cristiada in Messico, ci offrono un luminoso esempio di resistenza del popolo cattolico contro un potere illegittimo. Ma la storia ci offre anche esempi di intervento dell’autorità ecclesiastica contro autorità e leggi. Tutrice della legge divina e naturale è infatti la Chiesa, a cui spetta determinare, in ultima istanza, se una legge riflette o no l’ordine divino e naturale. Su questa autorità si fonda il diritto di scomunica e di deposizione, esercitato dal Papa anche nei confronti di re e imperatori.
Quando salì sul trono Elisabetta I Tudor, la Chiesa cattolica era perseguitata da colei che i contemporanei chiamavano filia sanguinis. Il 14 novembre 1569 i cattolici del Nord insorsero in Inghilterra, innalzando l’antica bandiera con la croce e le cinque piaghe che già aveva sventolato nel 1536 sotto Enrico VIII. Il 27 febbraio 1570, Pio V promulgò in Concistoro la bolla Regnans in excelsis con la quale dichiarava la regina Elisabetta I colpevole d’eresia e di favoreggiamento dell’eresia, incorsa nella scomunica, e perciò decaduta dal suo preteso diritto alla corona inglese: i suoi sudditi non erano legati dal giuramento di fedeltà verso di essa e sotto pena di scomunica non potevano prestarle obbedienza.
Pio V fu criticato perché questo atto portò a una recrudescenza della persecuzione. Conservare presso di sé o diffondere la bolla era considerato un delitto di alto tradimento. Tra i tanti martiri, ricordiamo il beato Giovanni Felton, che l’8 agosto 1570 fu impiccato e squartato presso la cattedrale di San Paolo per avere affisso in pubblico la bolla di scomunica emessa dal papa contro la regina. Se Pio V avesse dovuto seguire i princìpi che Giovanni XXIII e Paolo VI applicarono alle loro relazioni con i regimi comunisti, avrebbe dovuto praticare nei confronti di Elisabetta I una politica che oggi potremmo definire come westpolitik.
Ma Pio V era un Papa che governava la Chiesa in maniera soprannaturale, senza cercare gli applausi del mondo, e volle affermare il principio per cui bisogna ubbidire a Dio, piuttosto che agli uomini. I decreti neroniani di Elisabetta non furono mai applicati alla lettera e la legislazione persecutrice dell’ultima Tudor non raggiunse il suo obiettivo, che era quello di estirpare completamente la fede cattolica dalla terra inglese. I cattolici non ebbero paura e mentre tra il 1580 e il 1585 una nuova ondata di persecuzioni si abbatteva sull’Inghilterra, sbarcavano in incognito sul suolo britannico i primi missionari della Compagnia di Gesù, tra i quali san Edmund Campion, formati nei seminari inglesi di Roma e Douai.
Pio XI, nella enciclica Firmissimam constantiam del 28 marzo 1937, ai cattolici messicani, ricorda che l’obbedienza non è un valore supremo in nessun caso. “È quindi naturale che, quando le più elementari libertà religiose e civili vengono impugnate, i cittadini cattolici non si rassegnino senz’altro a rinunziarvi. Tuttavia la rivendicazione anche di questi diritti e di queste libertà potrà essere più o meno opportuna, più o meno energica, a seconda delle circostanze”. Qualora i poteri costituiti “insorgessero contro la giustizia e la verità al punto di distruggere le fondamenta stesse dell’autorità, non si vedrebbe come dover condannare quei cittadini che si unissero per difendere con mezzi leciti ed idonei se stessi e la Nazione, contro chi si vale del potere pubblico per rovinarla”.
Pio XI ricorda poi i princìpi generali, da tener sempre presenti, non diversi da quelli di san Tommaso, invitando i cattolici messicani ad avere “quella visione soprannaturale della vita, quella educazione religiosa e morale e quello zelo ardente per la dilatazione del Regno di Cristo che l’Azione Cattolica si propone di dare. Di fronte a una felice coalizione di coscienze che non intendono rinunziare alla libertà rivendicata loro da Cristo (Gal. 4, 31) quale potere o forza umana potrebbe aggiogarle al peccato? Quali pericoli, quali persecuzioni, quali prove potrebbero separare anime così temprate dalla carità di Cristo? (cf. Rm, 8, 35)”.
L’esempio prussiano
I nostri esempi sono stati tratti finora dalla dottrina e dalla prassi cattolica. Ma io vorrei ricordare un esempio di resistenza alle leggi ingiuste che ci viene da un mondo non specificamente cattolico. La contessa Marion Döhnoff (1909-1992), una nota scrittrice e giornalista tedesca, di antica famiglia prussiana, ha rievocato nelle sue memorie, la congiura anti-nazista del 20 luglio 1944. Molti degli uomini che in Germania osarono sfidare Hitler erano prussiani, per lo più alti funzionari dello Stato, diplomatici, militari, accomunati non da un’ideologia, ma da un sentimento dell’onore coltivato da famiglie abituate da secoli a servire in guerra e in pace il loro Paese.
Questi uomini non avevano studiato san Tommaso d’Aquino, ma la loro coscienza, il loro senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, faceva loro comprendere la necessità di ribellarsi ad Hitler. E il supremo olocausto che questi oppositori ad Hitler dovettero affrontare prima ancora di quello della vita, fu quel sentimento di obbedienza che costituiva il fulcro della loro educazione morale. Non c’è tradizione, come quella militare prussiana, che coltivi in maniera così forte e sentita il sentimento dell’obbedienza alla legittima autorità. Ma il coraggio della disobbedienza agli ordini ingiusti, la Libertas oboedientiae, fa parte della tradizione prussiana, che conosce altri esempi del genere nella sua storia. Una lapide sepolcrale, nella Marca di Brandeburgo, ricordando Johann Friedrich Adolf von der Marwitz, che rifiutò di eseguire l’ordine di Federico II di mettere a sacco il castello di Hubertusburg reca così scritto: “Vide i tempi eroici di Federico e combatté con lui tutte le guerre. Preferì cadere in disgrazia quando l’obbedienza non fu compatibile con l’onore”.
Si può perdere l’onore con un’obbedienza cieca ai propri superiori, o anche allineandosi al mainstream corrente, anteponendo gli interessi del proprio gruppo o movimento, del proprio istituto religioso, della propria famiglia, alla legge naturale e divina. Anteponendo, in una parola, gli interessi di una realtà umana a quel sentimento di giustizia che nasce dalla coscienza e che ha la sua fonte ultima nella legge divina.
I fedeli sono tenuti a ubbidire in tutto al Papa?
Non si può chiedere sacrificio maggiore della ribellione a chi è educato a obbedire e a servire. Amare la propria patria e desiderare la sua sconfitta in nome di questo amore costituisce un sacrificio estremo. La sorte dei congiurati del 20 luglio fu in questo senso amara. Essi non subirono solo processi farsa seguiti da torture e barbariche sentenze di morte, ma l’incomprensione di molti connazionali e degli stessi nemici, che ne misero in dubbio il patriottismo, malgrado la maggior parte di loro si fossero coperti di valore e di ferite su tutti i fronti. Ma c’è un damma di coscienza maggiore di quello in cui si trovò la nobiltà prussiana di fronte a Hitler. Ѐ il dramma di coscienza che vivono oggi molti cattolici cattolici di fronte agli ordini ingiusti delle autorità ecclesiastiche e persino del Papa.
Ѐ possibile che un vescovo, una conferenza episcopale, un concilio, un Papa, possa cadere nell’errore o nell’eresia, e pretenda di essere seguito su questa strada? Che cosa devono fare in questo caso i fedeli? Chiediamo, ancora una volta, la risposta a san Tommaso.
Il Dottore Angelico, in diverse sue opere, insegna che nel caso di pericolo della fede è lecito ed anzi doveroso resistere pubblicamente a una decisione papale, come san Paolo fece con san Pietro. Infatti “san Paolo, che era soggetto a san Pietro, lo riprese pubblicamente, in ragione di un pericolo imminente di scandalo in materia di fede. E, come dice il commento di sant’Agostino, “lo stesso san Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, allontanandosi qualche volta dalla buona strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti” (ad Gal. 2, 14)”.
La resistenza di san Paolo si manifestò come correzione pubblica a san Pietro. San Tommaso dedica un’intera questione della Summa alla correzione fraterna e spiega che essa è un atto di carità, superiore alla cura delle malattie del corpo o alle elemosine, “poiché con essa combattiamo il male del fratello, cioè il peccato”. La correzione fraterna può essere rivolta anche dagli inferiori verso i superiori, e anche dai laici nei confronti dei prelati. “Siccome però l’atto virtuoso deve essere moderato dalle debite circostanze, nelle correzioni che i sudditi fanno ai loro superiori si deve rispettare il debito modo: essa cioè non va fatta con insolenza, né con durezza, ma con mansuetudine e con rispetto”. Quando ci fosse un pericolo per la fede, i sudditi sono tenuti a rimproverare i loro prelati anche pubblicamente: “Perciò Paolo, che pure era suddito di Pietro, per il pericolo di scandalo nella fede lo rimproverò pubblicamente”
Se Pietro, il principe degli apostoli fu ripreso, non potrà essere corretto fraternamente un suo successore che si allontanasse dalla fede? La risposta di san Tommaso è positiva, come quella di Graziano, il principe dei canonisti, autore di un celebre Decretum (1140), che costituisce l’equivalente, nel campo del diritto, di ciò che è la Summa, nel campo della teologia.
Il Papa, ricorda Graziano, è vincolato dalle leggi di cui è custode e non può emanare canoni contrastanti con l’autorità dei Vangeli o delle sentenze dei Padri. L’assioma Prima Sedes non judicabitur a quoquam, secondo cui nessuna autorità umana è superiore al Papa, ammette un’eccezione: il peccato di eresia. Riprendendo un’asserzione attribuita a san Bonifacio vescovo di Magonza e citata da Ivo di Chartres, Graziano afferma che il Papa a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur a fide devius.
Il Romano Pontefice esercita un’autorità piena ed immediata su tutti i fedeli, e non ha nessuna autorità sulla terra a lui superiore, ma non può mutare la regola della fede né la divina costituzione della Chiesa, e se ciò accade, la “ disobbedienza ” ad un ordine in sé ingiusto si può spingere, fino alla resistenza al Sommo Pontefice. Si tratta di un caso raro, ma possibile, che non infrange, ma conferma, la regola della devozione e dell’obbedienza di ogni cattolico a Colui che è chiamato a confermare la fede dei propri fratelli.
La resistenza può essere privata, ma anche pubblica, e assumere le forme di una correzione filiale o fraterna. Il Dictionnaire de Théologie catholique afferma che la correzione fraterna è un precetto non opzionale, ma obbligatorio, soprattutto per chi ha incarichi di responsabilità nella Chiesa, perché discende dal diritto naturale e dal diritto positivo divino.
Spirito di resistenza e amore alla Chiesa
Il Concilio Vaticano II e ciò che ad esso è seguito all’interno della Chiesa ha posto gravi problemi di coscienza a molti fedeli. Sono i problemi che oggi pure il pontificato di papa Francesco pone.
Ricordo due chiari esempi di resistenza all’autorità ecclesiastica che seguono il Concilio Vaticano II e che precedono il caso Lefebvre. Mi riferisco alla resistenza del padre Calmel al Novus Ordo di Paolo VI [qui], e alla resistenza di Plinio Corrêa de Oliveira alla Ostpolitik del Vaticano verso i regimi comunisti.
In entrambi i casi l’atteggiamento fu filiale, rispettoso, ma fermo e senza compromessi e mantiene oggi tutta la sua validità. Nessun sacerdote può essere obbligato a celebrare la nuova Messa e nessuna autorità può impedire a un sacerdote di celebrare la Messa tradizionale. Nessuna autorità può imporre una politica di accordo con un regime, come quello comunista, ieri russo, oggi cinese, che viola apertamente la legge naturale e perseguita brutalmente i cristiani. Nell’un caso e nell’altro, così come nel caso della Esortazione post-sinodale Amoris laetitia, la resistenza e la correzione fraterna è moralmente lecita e doverosa.
Nel discorso sulla “salus animarum” come principio dell’ordinamento canonico, tenuto il 6 aprile 2000, il cardinale Julián Herranz, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ha ribadito come questo è il supremo principio ordinatore della legislazione canonica. Oggi prevale un positivismo giuridico, che tende a ridurre il diritto a un mero strumento nelle mani di chi ha il potere, dimenticandone il fondamento metafisico e morale . Secondo questa concezione legalista, penetrata anche all’interno della Chiesa, è sempre giusto ciò che l’autorità promulga. In realtà lo Ius divinum è il fondamento di ogni manifestazione del diritto. Dio è il Diritto vivente ed eterno, principio assoluto di tutti i diritti. È per questo che, in caso di conflitto tra la legge umana e quella divina, “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At. V, 29).
I trattati spirituali ci insegnano come comportarsi nei periodi di normalità, non in quelli di eccezione in cui viviamo. Riconosciamo la suprema autorità del Papa, e il suo governo universale, ma sappiamo che il Papa nell’esercizio della sua autorità, può commettere degli abusi di autorità, come purtroppo è accaduto nella storia. Vogliamo obbedire al Papa: a tutti i Papi, compreso l’attuale, ma se nell’insegnamento di qualche Papa, trovassimo una almeno apparente contraddizione, la nostra regola di giudizio è la legge naturale e divina, espressa dalla Tradizione bimillenaria della Chiesa. Lo spirito di ribellione caratterizza purtroppo molti uomini di Chiesa ribelli alla sua Tradizione e alle sue leggi immutabili. Essi vogliono una Chiesa diversa da come Nostro Signore l’ha voluta. Da parte nostra vogliamo consumare le nostre anime in un atto di ubbidienza e di amore alla Chiesa e alla sua Tradizione.
La perfetta obbedienza cristiana è quella che mira a compiere la volontà di Dio, vista nella persona del proprio superiore. Ma nel caso di un esercizio iniquo ed ingiusto del potere, spiega un teologo passionista, “il rifiuto del comando e del divieto è disobbedienza doverosa, non già ribellione alla persona del superiore, ma protesta contro le sue idee, le sue intenzioni, le sue direttive”.
Secondo padre Zoffoli, i peggiori mali della Chiesa non derivano dalla malizia del mondo, dalle ingerenze e persecuzioni del potere laico o delle altre religioni, ma principalmente dagli elementi umani che compongono il Corpo Mistico: laicato e clero. “Ѐ la disarmonia prodotta dall’insubordinazione del laicato all’opera del Clero, e del Clero al volere di Cristo”.
Potremmo aggiungere che all’interno dell’insubordinazione del Clero a Cristo, tante volte conosciuta dalla storia, ce n’è una che la storia ha conosciuto raramente, ma che è certamente la più grave: la ribellione alla volontà di Cristo del Supremo Pastore della Chiesa, perché nulla, come questo fatto, conduce al disorientamento, alla corruzione della fede e all’apostasia dei fedeli.
Cosa fare dunque? Cercare nello spirito di vera obbedienza la risposta. Chi dice che bisogna sempre obbedire al Papa è spesso un uomo che nella vita spirituale è anarchico e disubbidiente, perché ha la regola di vita in sé stesso e non in una legge morale oggettiva e assoluta.
Dobbiamo spiegare invece che c’è una vera e una falsa obbedienza. La vera obbedienza è quella di chi, obbedendo, è capace di risalire a Dio, unendo la propria volontà con la sua.
La falsa obbedienza è quella di chi divinizza l’uomo che rappresenta l’autorità e ne accetta anche gli ordini illeciti.
Dobbiamo spiegare che l’obbedienza ha un fondamento, ha un fine, ha delle condizioni, ha dei limiti. Solo Dio non ha limiti: è immenso, infinito, eterno. Ogni creatura è limitata e il limite definisce la sua essenza. Non esiste perciò sulla terra né autorità illimitata, né obbedienza illimitata. L’autorità è definita dai suoi limiti, e anche l’obbedienza è definita dai suoi limiti. La conoscenza di questi limiti porta alla perfezione nell’esercizio dell’autorità e alla perfezione nell’esercizio dell’obbedienza. Il limite invalicabile dall’autorità è il rispetto della legge divina e il rispetto della legge divina è anche il limite invalicabile dell’obbedienza. Noi dobbiamo conoscere i limiti dell’obbedienza e li dobbiamo rispettare, soprattutto quando questi limiti non sono rispettati dall’autorità.
All’autorità che supera i limiti dobbiamo opporre una ferma resistenza, che può divenire pubblica. Ѐ questo l’eroismo del nostro tempo, il modo più serio per essere santi oggi. Essere santi significa fare la volontà di Dio, Fare la volontà di Dio significa obbedire alla sua legge sempre, soprattutto quando è difficile, soprattutto quando ciò ci mette in contrasto con la legge degli uomini.
Molti uomini, nel corso della storia, hanno manifestato un comportamento eroico, resistendo alle leggi ingiuste dell’autorità politica, Più grande ancora è l’eroismo di coloro che hanno resistito alla pretesa della autorità ecclesiastica di imporre dottrine divergenti dalla Tradizione della Chiesa. Una resistenza filiale, devota, rispettosa, che non porta a uscire dalla Chiesa, ma moltiplica l’amore alla Chiesa, a Dio, alla sua legge, perché Dio è il fondamento di ogni autorità e di ogni obbedienza.
In fondo, tutto si riduce a due parole: DIO SOLO
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