lunedì 28 marzo 2011

Omeopatia e medicina, un problema di incomunicabilità




del Dr. Roberto Vanzetto

La seguente lettera è comparsa sul numero di aprile/1992 di «FEDERAZIONE MEDICA - Organo di Aggiornamento Scientifico e Professionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri». I firmatari (Prof. Giovanni Federspil e Prof. Cesare Scandellari) rispondono ad un articolo sulla medicina omeopatica comparso sul numero di ottobre 1991 dello stesso bollettino.



"Egregio Direttore, abbiamo letto il lavoro di Martini e Cateni sull'"Esercizio della medicina omeopatica" (Federazione Medica, 10/1991) e come studiosi di metodologia clinica e in particolare dei fenomeno della medicina alternativa, dobbiamo confessare che ci troviamo in sostanziale disaccordo con le opinioni espresse dagli Autori; desideriamo pertanto esporLe i punti di dissenso sperando che possano essere portati anche a conoscenza dei lettori.

Facciamo questo non per uno sterile desiderio di polemica, ma perché riteniamo che quello della pratica medica alternativa rappresenti uno dei massimi problemi concernenti la medicina attuale, e che una discussione razionale serva a chiarire i punti più equivoci ed oscuri.

La questione principale riguarda l'esercizio della medicina omeopatica, che gli Autori ritengono sia "lasciato alla libera scelta del medico", in quanto la prescrizione medica deve scaturire "Dal libero convincimento e dalla personale esperienza". Su questa opinione dobbiamo dissentire perché il convincimento dei medico non può non godere di una "libertà" limitata dal contenuto delle conoscenze scientifiche accettate in un certo momento storico. Sostenere l'opposto equivale ad affermare l'assoluta arbitrarietà del comportamento del medico. Gli Autori stessi ricordano gli articoli 7, 19 e 23 del Nuovo Codice di Deontologia Medica, in cui ripetutamente si sostiene che la pratica medica deve fondarsi sulle conoscenze scientifiche più recenti e fondate.
Ora, se non si vogliono ridurre queste norme ad un flatus vocis, è necessario riconoscere che le conoscenze scientifiche sono quelle universalmente accettate dalla comunità scientifica internazionale (fisici, chimici, biologi, medici, ecc.) e che pertanto a queste conoscenze si deve adeguare il comportamento dei medico.
Non è sufficiente che qualcuno (omeopati, agopuntori, pranoterapisti, iridologi, nonché tutta la variopinta schiera dei ciarlatani che oggi prolifera ovunque) dichiari scientifica la propria medicina perché questa lo diventi realmente. E, da Galileo in poi, sono appunto i canoni del metodo sperimentale che permettono di dichiarare scientifica una disciplina. Se sono chiari questi elementari concetti epistemologici diviene chiaro che l'agire dei medico da un lato deve essere basato sulla sua coscienza (cosa questa che concerne il mondo dei valori) e dall'altro deve essere determinato dalle conoscenze scientifiche (che concernono il mondo dei fatti, non quello dei valori). Ma le conoscenze scientifiche di un certo momento storico sono date (nel senso filosofico dei termine) e non sono esposte ai conflitti dei mondo dei valori. Come ha insegnato Max Weber, la scienza non stabilisce fini, ma stabilisce solo, dati certi fini, quali siano i mezzi migliori per raggiungerli. E poiché la scienza è una, il medico, per raggiungere i fini che la sua coscienza gli dice siano da perseguire, non può abbandonarla per seguire i precetti di un'altra scienza (oggi l'omeopatia, domani la pranoterapia e, dopodomani, perché no?, un'altra disciplina sempre più arbitraria). Riassumendo: il libero convincimento del medico deve essere contenuto nell'ambito delle conoscenze scientifiche universalmente accettate e concerne la scelta fra le terapie scientifiche (all'interno, quindi, della scienza) sulla base della personale esperienza, e non fra terapie scientifiche e terapie non-scientifiche.

Ancor meno d'accordo siamo con la tesi degli Autori, secondo la quale "La medicina omeopatica viene praticata da medici per l'esigenza intrinseca di una precisa diagnosi iniziale, il che presuppone un adeguato bagaglio culturale medico, che possiede solo chi abbia svolto regolari studi universitari".

Prima di tutto vi è da dire che la omeopatia non è affatto una teoria unitaria: invitiamo gli Autori a leggere ed a confrontare diversi manuali di medicina omeopatica. Potranno facilmente constatare che vi sono dottrine fra loro completamente opposte: i Kentisti, coloro che credono nelle dottrine miasmatiche, i costituzionalisti francesi, gli unicisti ecc.: e tutti pretendono che la loro sia la vera, originale, autentica dottrina omeopatica. Ciò non è ancora tutto: la patologia omeopatica (perché è necessario dire che l'omeopatia non è solo una dottrina terapeutica, ma anche una dottrina patogenetica, una dottrina patologica e una dottrina diagnostica) non ha nulla a che fare con la patologia scientifica: ad esempio l'anatomia e l'istologia patologica sono completamente ignorate dai medici omeopatici; ancora più ignorata è la biochimica. Non si vede quindi quale utilità abbia per il terapista omeopatico il "bagaglio culturale medico che proviene dagli studi universitari", quando chi professa l'omeopatia di fatto ignora e/o trascura (in quanto omeopata) quel bagaglio. Il nucleo dei discorso sta tutto in questo punto: l'omeopatia non è affatto un'integrazione della medicina scientifica (quella, ad esempio, che permette agli Autori, medici legali, di far diagnosi laboratoristica di veneficio), ma una dottrina che è sostanzialmente altro rispetto alla medicina scientifica. Ed è proprio per questa radicale diversità fra omeopatia e medicina scientifica (e, quindi, biochimica, fisiopatologia, istopatologia, farmacologia ecc.) che riteniamo che -pur potendo i rimedi omeopatici essere utilizzati come placebo - il professare l'omeopatia debba essere inibito al medico abilitato e iscritto all'Ordine. Come ben si sa, infatti, il tradimento dei chierici è cosa gravissima!

Gli Autori parlano poi di "errore di diagnosi" (v. pag. 638, 2' colonna, riga 33) senza specificare di quale diagnosi si stia parlando. Poiché l'omeopatia, o almeno alcune correnti dei pensiero omeopatico tradizionale, riconoscono soltanto tre malattie (la psora, la sicosi e la lue), appare evidente che una diagnosi può essere contemporaneamente esatta per un medico omeopatico ed errata per la medicina scientifica. A quale sistema teorico si dovrà quindi far riferimento per parlare di errore diagnostico? Se si parla di errore di diagnosi facendo riferimento alla nosografia scientifica universalmente accettata, non si vede come si possa riconoscere la validità di una classificazione morbosa ed al tempo stesso ammettere che i malati vengano curati con un sistema teorico che fa riferimento ad un sistema tassonomico differente. Se invece si parla di errore di diagnosi facendo riferimento alla nosografia omeopatica e non a quella scientifica, si avrà il risultato paradossale che il giudice, prima di giudicare se vi sia stato errore di diagnosi, dovrà chiedere al medico quale sia la dottrina medica a cui egli aderisce, e limitarsi a verificare se il medico ha fatto una diagnosi corretta all'interno dei suo "sistema". In altre parole, se si mette in discussione la medicina scientifica con la sua nosografia, la sua diagnostica e la sua terapia, si dovranno giudicare gli errori di diagnosi degli omeopatici in relazione alla dottrina omeopatica, quelli degli agopuntori in relazione al sistema della medicina cinese, quelli dei medici ajur-vedici in relazione al sistema della medicina ajur-vedica, e così via.

E, così, perduto il riferimento alla medicina scientifica, saremmo alla torre di Babele e alla confusione delle lingue!

Ci pare poi che vi sia contraddizione fra ciò che gli Autori sostengono nei primi due capitoli e ciò che affermano nel penultimo (ipotesi di responsabilità ... ) dove scrivono che "Il diritto del medico alla discrezionalità della cura, compresa quella omeopatica, termina allorquando si rendano necessari trattamenti diversi (classici)". Sembra che la tesi qui sostenuta dagli Autori sia la seguente: se un trattamento non è necessario (probabilmente essi pensano alla "piccola patologia", prevalentemente "funzionale") allora tutto va bene: l'omeopatia, l'imposizione delle mani, un colloquio distensivo, un qualsiasi placebo: qui vige la discrezionalità dei medico. Se invece il trattamento è necessario (e pensiamo che gli Autori si riferiscano ai trattamenti della medicina scientifica con farmaci veri, come gli antibiotici o l'insulina, o con interventi chirurgici; e che si riferiscano a necessità stabilite in base alle conoscenze scientifiche come la presenza di una tbc polmonare o di un diabete mellito insulino-dipendente) allora la discrezionalità del medico termina. Ebbene, ci sembra che questa conclusione per noi dei tutto accettabile riconosca sostanzialmente l'obbligatorietà della medicina scientifica, e annulli o quasi annulli quella che gli Autori chiamano l'ottica della libertà di scelta terapeutica (v. pag. 639). In sostanza, i motivi dei nostro radicale dissenso dalle tesi degli Autori si riferiscono al fatto che essi si riducono a ritenere che, sulla base dei principio della libertà della scelta terapeutica, tutto divenga possibile e lecito in medicina, anche lo stesso trascurare il riferimento alle conoscenze scientifiche. Se si accetta l'idea che il sapere scientifico universalmente accettato non è vincolante, ogni medico potrà inventarsi una su a scienza medica ed affermare di agire "secondo scienza e coscienza". E - come si potrebbe mostrare con molte citazioni - questo è proprio ciò che sta succedendo oggi. Per questo crediamo che la tesi degli Autori sulla omeopatia, oltre che epistemologicamente sbagliata, sia anche estremamente pericolosa sul piano pratico, poiché essa giustifica di fatto non solo ogni altra pratica medica alternativa ma anche l'operato di qualsiasi ciarlatano. Con i più cordiali saluti."
Prof. Giovanni Federspil
Prof. Cesare Scandellari